Dal CORRIERE della SERA del 15/01/2015, a pag. 21, con il titolo "Non esiste lo scontro di civiltà, questa è una guerra interna all'islam", l'intervista di Marco Garzonio a Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa dal 2004.
«Gli atti di terrorismo che insanguinano il Medio Oriente e l’Europa non sono frutto di uno scontro di civiltà. Questa è innanzitutto una guerra interna all’Islam. È inoltre la risposta sbagliata e drammatica di una parte dell’Islam alla modernità, ai problemi economici, morali, culturali che lo sviluppo pone. Nel mondo musulmano questa riflessione non è ancora stata fatta». Parla padre Pierbattista Pizzaballa, 50 anni ad aprile, il francescano Custode di Terra Santa da undici, cioè l’erede della capacità di incontro instaurata dal Santo di Assisi con il Saladino: l’altra faccia rispetto alle Crociate.
Netanyahu e Abu Mazen in prima fila nella marcia di Parigi. Una circostanza dettata da un evento particolare o l’indizio di un cambiamento nei rapporti tra Israele e i Palestinesi? «Non mi sembra che spirino venti di cambiamento. La forza degli eventi li ha obbligati ad essere a Parigi. Ma le relazioni tra Israele e palestinesi non sono cambiate, purtroppo. Le elezioni che ci saranno tra un paio di mesi impongono un’attesa. Si capirà dopo».
Hamas ha condannato gli attacchi terroristici in Francia: una presa di distanza dopo il plauso all’assassinio di 4 rabbini in sinagoga? «È una presa di posizione curiosa. Solo il tempo dirà se è mutata la strategia o se è stato un episodio. Resto un po’ freddo. Spesso in Medio Oriente ci sono due facce: una politica interna e la necessità di guadagnarsi credito internazionale».
Gli attacchi di Parigi cambieranno il modo di pensare occidentale verso i conflitti che insanguinano il Medio Oriente? «Non sono i primi attacchi terroristici di matrice islamica in Europa. Si pensi a Madrid, a Londra, nella stessa Francia. La novità è l’impatto sull’opinione pubblica. Si stanno determinando le condizioni perché l’Europa compia un’opera di chiarimento su alcune parole lasciate nell’ambiguità. La parola integrazione. Cosa significa? Ci sono valori al centro della convivenza. I diritti fondamentali della persona: libertà di coscienza, uguaglianza uomo-donna, dignità e ruolo della donna, libertà di cultura, di espressione, legislazione sul lavoro, distinzione tra politica e religione e così via. Chi viene in Europa non può metterli in discussione. L’Europa deve chiarire la propria identità, sapendo che per poter integrare devi definire con chiarezza i punti fermi irrinunciabili».
Diceva Martini che ci sarà pace nel mondo quando ci sarà pace a Gerusalemme. Solo un paradosso? «Gerusalemme ha un valore simbolico altissimo e, insieme, una rete di relazioni e interdipendenze molto strette col mondo. Le tensioni qui sono espressione di quelle mondiali. E viceversa. Se qui si dialoga si può riverberare sul pianeta una capacità di incontro».
Nella mobilitazione di Parigi c’è solo l’Europa dei Lumi che difende la libertà di manifestare le proprie idee, o anche l’Europa che si ispira al solidarismo cristiano dei grandi leader nel dopoguerra? «L’Europa di oggi è diversa dai momenti che l’han vista nascere. Non so quanto il solidarismo di ispirazione cristiana animi oggi il Vecchio Continente. Basta guardare a come si è affrontato il tema dell’immigrazione, i salvataggi in mare e le politiche collegate. Certo, ciò che è accaduto a Parigi ha mosso nuove dinamiche, a partire dalla necessità di coordinarsi per rispondere al terrorismo».
Quindi si è messo in moto solo un meccanismo che garantisca l’ordine pubblico? «Questa è una parte. C’è un’Europa che non fa notizia e lavora per l’integrazione, una rete di movimenti, volontari, iniziative. Guardiamo a tale Europa, che conta più di quanto non si creda».
Lei è a contatto con i cristiani di tutte le confessioni in Israele, Egitto, Siria, Giordania, Iraq, Libano. Che situazioni incontra? «Sono Paesi diversissimi tra loro. Israele non è come la Siria e l’Iraq. L’Egitto, oggi più tranquillo, offre aspetti e dinamiche interessanti e vivaci. Penso all’importante discorso del presidente Sisi dell’università Al Azhar. In generale vedo una debolezza istituzionale diffusa. Certo, incontro situazioni umane drammatiche, ma scopro anche tanta solidarietà, oltre a un’umanità negativa. Sono stato ad Aleppo. È una città da due anni sotto assedio. C’è rimasto chi non sa dove andare. Non c’è acqua e la concessione di un po’ di elettricità dipende dai ribelli. Eppure, imam e parroco si aiutano. I gesuiti distribuiscono 10 mila pasti al giorno e giovani volontari, cristiani e musulmani, li portano a chi ha bisogno. Ci sono tante realtà di cui i media non parlano. Sono il contraltare al fanatismo e alle decapitazioni».
Molti cristiani affermano che stavano meglio sotto Saddam e Mubarak, che godevano di maggior libertà e protezione: ha fondamento tale giudizio? «Si trattava di regimi dittatoriali, che non sarò io certo a difendere. Ma ad essi sono subentrate dittature peggiori, a cominciare dal fondamentalismo».
Che cosa dell’Isis attrae i giovani europei? «Non so spiegarmi come il fanatismo possa attrarre. Molti parlano di giovani disperati che vengono dalle periferie dove non c’è nulla. Ma poi vedi che accorrono anche persone istruite e ti chiedi se non vi sia un problema di formazione, l’incapacità di abituare fin dalla scuola i giovani a pensare, confrontarsi, problematizzare. L’Europa e soprattutto il Medio Oriente devono affrontare il tema dell’educazione».
In Medio Oriente, tra la gente, non si avvertono reazioni di tipo umano a torture ed esecuzioni? «Sì, una reazione c’è, ma negli incontri personali. Mi aspettavo più fermezza da parte dei media in Medio Oriente. Forse qualcosa si muove. Penso alla reazione agli attentati di Parigi e al mondo che li esprime da parte di Al Azhar, l’università religiosa del Cairo, riferimento importante per l’Islam».
Il Papa è stato il primo ad evocare l’immagine di «terza guerra mondiale». Quali elementi hanno suggerito al Pontefice quell’intuizione? «Il Papa ha uno sguardo d’assieme sulla realtà mondiale che pochi altri possono avere. Ha colto il cambiamento epocale e, in esso, la violenza che lo abita come nocciolo. Il fanatismo, il dire io sono nel giusto; o diventi come noi, o devi sparire. Poi, a seconda delle situazioni, si avrà in Medio Oriente l’Isis e in Africa Boko Haram. È un ritorno al punto più buio di secoli passati».
Il Papa ha invitato alla preghiera comune in Vaticano ebrei, cristiani, musulmani. Dicono che lei sia stato regista. Possono fare qualcosa per la pace le tre religioni del Libro?«Possono fare tantissimo. Ma parliamo di religiosi, non di religioni, parola astratta. I religiosi all’interno dei loro mondi devono aver chiaro il ruolo dell’esperienza religiosa, le relazioni con Dio e tra questi e l’uomo e tra gli uomini, evitando assolutizzazioni che portano ai fanatismi. In questo contesto è soprattutto l’Islam che ha un grosso lavoro da fare in proposito. L’immagine di religiosi che dialogano tra loro è essenziale oggi. Non possiamo restare solo con l’immagine che ci trasmettono i fondamentalismi».
L’Europa deve ora a fare i conti con la deriva antisemita. La comunità ebraica francese si è dimezzata, le comunità cristiane del Medio Oriente emigrano. In alcuni Paesi d’Europa i musulmani raggiungono la metà della popolazione. Che cosa sta accadendo? «Occorre guardare al mondo in trasformazione e a questi spostamenti senza spaventarsi. Finisce un’epoca, non il mondo. Le discriminazioni contro le minoranze sono la cartina di tornasole della nostra cecità e delle nostre paure. Credevamo che l’antisemitismo fosse finito dopo le efferatezze del nazismo e abbiamo allentato l’attenzione. Purtroppo c’è ancora il pregiudizio antiebraico e va combattuto. Bisogna distinguere aspetto politico e religioso. Si può non condividere la politica dello Stato di Israele, ma tale valutazione non può assumere connotazioni antiebraiche o diventare il pretesto per alimentare forme di antisemitismo».
C’è un Islam moderato o parlarne esorcizza la paura? «Islam moderato è un’espressione molto europea. Risponde ai nostri bisogni di semplificazione. Dobbiamo imparare a conoscere meglio l’Islam, che è una realtà molto complessa. In quella galassia non tutto è fanatismo, non tutto è Isis: per carità. Certo, ci vuole un grande sforzo da parte dell’Occidente».
Cosa non ha capito l’Occidente delle Primavere Arabe? «L’Occidente non ha compreso molto la complessità del Medio Oriente. Prima l’ha visto sotto il profilo dell’occupazione coloniale. Poi per soddisfare i propri bisogni economici ed energetici. Risultato? In Iraq e Libia si son fatti errori. Si volevano fermare dei dittatori, con i quali s’erano avuti rapporti di convenienza? Ci poteva stare, ma le iniziative si prendono se si ha in mente cosa può accadere. Le primavere arabe hanno espresso un cambiamento, ma quando s’è trattato di definire il dopo movimenti spontanei sono stati sequestrati dai fanatismi. I cambiamenti non sono finiti, ci aspetta un periodo di trasformazioni. Per esempio l’Isis non proseguirà nel tempo. Dobbiamo sapere che non si può puntare alla situazione precedente, che non ci saranno un Iraq o una Siria stati nazionali come in passato».
Il leader della Lega afferma che milioni di musulmani son pronti a ucciderci e fa breccia in molte periferie... «Non dobbiamo rispondere a chiusure con altre chiusure. Il fanatismo si ferma con la prevenzione, combattendo l’ignoranza. I fanatici ci vogliono contro per giustificare i loro attacchi».
Padre Pizzaballa, lei è ottimista? «Nel breve no. Sul lungo periodo sì. C’è una guerra in corso, ma le guerre finiscono. E allora c’è solo da ricostruire. Oggi magari non si intravvede una soluzione politica, ma non è finita la missione del Cristianesimo in Medio Oriente. Molto è distrutto, il seme è rimasto. Quello di Gesù, figlio dell’uomo».